L’iconografia alfieriana

La fortuna dell’iconografia alfieriana è testimoniata dalla collezione di stampe, comprendente sessantatré fogli; essa offre una ricca galleria di ritratti incisi di Vittorio Alfieri, realizzati da artisti italiani, francesi, inglesi, tedeschi, lungo un arco cronologico compreso fra il 1793 e la seconda metà dell’Ottocento.

Pur presentando qualità artistiche ed esiti stilistici diseguali, queste stampe propongono interessanti interpretazioni  della figura del Poeta e sono riconducibili ai modelli iconografici costituiti dai più noti ritratti pittorici di Alfieri, in particolare quelli di François-Xavier Fabre (1766-1837), originario di Montpellier e allievo di Jacques Louis David, assiduo frequentatore del fiorentino Palazzo Gianfigliazzi, ultima dimora dello scrittore.

Cinque sono i ritratti eseguiti da Fabre: uno, del 1793, oggi agli Uffizi, sul cui retro Alfieri trascrive il celebre sonetto-autoritratto Sublime specchio di veraci detti; un altro di Alfieri e dell’Albany, donato all’abate Tommaso Valperga di Caluso  (1796; ora nel Museo Civico di Arte Antica e Palazzo Madama di Torino); quello risalente al 1797 e regalato alla sorella Giulia, esposto qui nell’anticamera dell’appartamento natale di proprietà della Fondazione Centro di Studi Alfieriani; e i due dipinti nel 1796 e nel 1803, conservati nel Museo Fabre di Montpellier.

Per il ritratto del 1797 Alfieri esprime uno speciale apprezzamento; scrive infatti a Giulia, in una lettera da Firenze del 2 aprile 1798: «quanto poi alla somiglianza […] vi posso accertare […] che a chi l’ha veduto qui me presente, pareva che si fosse fatto un buco nella tela, e ch’io ci avessi passata la testa». In tale quadro, sul foglio semi-arrotolato appoggiato sul tavolo a destra, compare la dedica alla sorella, mentre sul retro della tela Alfieri riporta di suo pugno due versi del poeta greco Pindaro, poi tradotti così nell’epistola a Giulia: «Pianta effimera noi, cos’è il vivente? / Cos’è l’estinto? – Un sogno, un’ombra è l’uomo».

Proprio la citazione in greco e la sua traduzione, un po’ modificata, saranno poste dallo scrittore in epigrafe alla Vita (nel manoscritto Laurenziano 24), stabilendo così una circolarità fra l’immagine dipinta e quella tratteggiata nell’autobiografia.

Nelle incisioni, però, il ritratto del 1797, che tanto piacque ad Alfieri, gode di minore fortuna rispetto ad altri eseguiti da Fabre, come quello del 1793 e i due, ora a Montpellier, del 1796 e del 1803. Il primo, in particolare, diviene molto noto dopo la stampa di traduzione realizzata da Raffaello Morghen, posta, con il permesso di Alfieri, nel frontespizio dell’edizione delle Tragedie pubblicata da Tommaso Masi (Livorno, 1793).

Nella raccolta di ritratti incisi non mancano stampe di invenzione, come quelle che inseriscono l’immagine dell’astigiano nella schiera degli autori del teatro italiano oppure la propongono insieme alle raffigurazioni di Shakespeare e  di Corneille. Alcune opere, poi, sono davvero sorprendenti, come il disegno a  matita e  penna, firmato da Enrico  Baroni (prima metà sec. XIX): il ritratto di Alfieri, ispirato al quadro del Fabre del 1793, è costruito utilizzando i caratteri minutissimi del testo della tragedia Oreste.